Una scodella di harira

Con la abituale, irriverente maniera di guardare le altre fedi religiose, mi si diceva da piccolo: “Guarda bene, digiunano di giorno e mangiano di notte!”

di Renato Zilio


Naturalmente, si parla di ramadan. Svalutare, deprezzare l’altro era la regola. Oggi un approccio più sano richiama, invece, a scoprire l’originalità, il senso, i valori che una tradizione religiosa porta o veicola in sè. Mai avrei immaginato, in seguito con il passare degli anni, di avere l’occasione in un paese islamico di essere ospite di una comunità di monaci trappisti e di fare questa stessa esperienza con loro. Anzi, di percepire il senso di privilegio nel vivere un tempo speciale come questo, in terra d‘Islam. “È qualcosa che sa veramente di profetico!” vi confiderà, allora, padre Joël, anziano francescano, in questi luoghi da più di quarant’anni. Tutto un popolo, infatti, vive la solidarietà, la preghiera, la visita ai vicini, la tensione escatologica con una convinzione interiore, a volte, impressionante. “Sai, molti qui hanno una fede, che trasporta le montagne!” vi confessa con meraviglia suor Monica, alsaziana, in Maghreb da più di trent’anni. E così spesso alla sera sono invitato con tutti i cinque monaci trappisti dai vicini di casa del monastero. Ogni sera, invitati da una famiglia differente. È per condividere la cena di rottura del digiuno (ftur), al calare della notte. Una cena fraterna, rituale e regale offerta come coronamento di tanti gesti di solidarietà, vissuti durante l’anno con i monaci. Naturalmente, durante il giorno essi, in sintonia con milioni di credenti, cercano di allinearsi alla tradizione musulmana.

Resistere durante la caloria del giorno, in piena estate, senza mangiare e senza bere neppure una goccia d’acqua è senz’altro qualcosa di provante e anche di eroico. Diventa un motivo profondo di fierezza, di forza interiore. Come per un atleta. Così, il piccolo Mohammed, arrivando un mattino, chiedeva alla suora se per caso avesse mangiato. Al suo cenno positivo lui, allora, mostrandole la linguetta bianca: ”Invece, io no!” lancia, sputandole su una scarpa. Si comprende, così, il senso del resistere, del “self control” e della tradizione, inculcati fin da bambini.

Fino a pochi anni fa, era una sirena che dava il segnale di rottura del digiuno. Nelle famiglie si attendeva questo segno con un silenzio religioso, con il cucchiaio sollevato, davanti a una scodella di harira, una zuppa di verdura che ammorbidisce la gola per il passaggio del cibo. Momento magico. È il senso comunitario di tutto un popolo, nel vivere intensamente allo stesso ritmo, come un solo corpo.

Alla stazione del treno, allo sportello non trovo nessuno. L’impiegato è alla preghiera, bisognerà attendere il suo ritorno. “Vedi, queste cose non succedono in Europa!” mi fa il mio compagno di viaggio. Ma ambedue comprendiamo quanto intimamente una società possa essere impregnata di senso religioso, inimmaginabile altrove.

Questo tempo di ramadan trasforma anche la fede dei cristiani in terra d’Islam. Sottolinea il valore di una preghiera, del senso dell’altro e del mistero del vivere che modellano la vita sociale musulmana. Così, ammiri questa comunità di monaci in silenzio, quando, immobili sulla stuoia, si trovano in preghiera. Sembra dicano all’unisono con questo popolo: Solo Dio è grande! Superba lezione di umiltà per chi come noi possiede il gusto dell’azione, il senso del fare che salva il mondo. Ogni cosa, invece, è ben poca cosa. Solo Dio è grande... e chi lo sa incontrare.
Il tempo del ramadan può esserne una via maestra.

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