Meglio peccatori incalliti che santarellini corrotti

La “corruzione” secondo Francesco, nel primo libro di papa Bergoglio tradotto in italiano 

 

di Paolo Fucili 


Meglio un peccatore incallito ma consapevole di esser tale che una “faccia da santarellino” addottorato in “cosmetica sociale”. Papa Francesco non ha dubbi. Perché per il peccato c’è sempre il perdono di Dio, a patto di non stancarsi di chiederlo. Un cuore corrotto invece “è talmente arroccato nella soddisfazione della sua autosufficienza da non permettere di farsi mettere in discussione”. Facce da santarellini, li chiamava perciò la nonna di Jorge Mario Bergoglio, a cui par di capire che la formazione cristiana del nipote deve molto, se lui non fa che citarla, anche in un intervento di 8 anni fa ad un’assemblea diocesana a Buenos Aires, disponibile ora in italiano in “Guarire dalla corruzione”, primo libro del Papa argentino tradotto e pubblicato nelle librerie italiane dalla EMI.
 

 

 


Al primo Angelus del pontificato, 17 marzo, Francesco invitò tutti con insistenza a non stancarsi mai di chiedere perdono a Dio. Il Vangelo del giorno era quello dell’adultera scampata alla lapidazione. E “per me, lo dico umilmente, è il messaggio più forte del Signore: la misericordia”, lo aveva commentato celebrando prima la messa nella parrocchia vaticana di sant’Anna; “lui stesso l’ha detto: io non sono venuto per i giusti; i giusti si giustificano da soli. Io sono venuto per i peccatori”, aveva spiegato col tono colloquiale piacevolmente tipico del suo predicare.
 

Ora questo breve ma denso libello ci consente di legare e seguire meglio i fili di un discorso che evidentemente gli sta assai a cuore. Un cuore di pastore dalla solida esperienza nella cosiddetta “cura d’anime”, appassionato di Dio e dell’uomo con tutte le sue miserie e nobiltà, è il bel volto che di papa Bergoglio traspare in queste pagine. La corruzione, si legge, non è un semplice peccato; è qualcosa di molto peggio. Peccatori erano il pubblicano Matteo, Zaccheo, la samaritana, il buon ladrone. Molte delle loro opere “erano cattive, ma nello stesso tempo il cuore che le produceva sentiva la propria debolezza”. I corrotti, invece, nell’esegesi dell’allora vescovo di Baires, sono i farisei, i sadducei, gli esseni, gli zeloti, accomunati dal fatto che “tutti hanno elaborato una dottrina che giustifica la loro corruzione, o che la copre”.
 

Il peccatore appunto sa di esser tale e aver bisogno di perdono. Il corrotto invece inganna se stesso e gli altri fino al punto che la coscienza neppure lo rimprovera più. Anzi, un uomo del genere “si offende dinanzi a qualunque critica, discredita la persona o l’istituzione che la emette, fa in modo che qualunque autorità morale in grado di criticarlo sia eliminata”. Con lo scorrere fluido delle pagine, l’analisi si fa sempre più severa e circostanziata. Difficile catalogarle con le usuali categorie tematiche. “Guarire dalla corruzione” non è né spiritualità né sociologia, semmai una felice sintesi di entrambe. Un gesuita non può che partire dall’introspezione del cuore corrotto, appresa alla competente scuola della spiritualità ignaziana. Ma siccome dalla corruzione di un cuore deriva sempre una corruzione sociale, la sensazione qua e là è come di leggere distaccati ma lucidissimi commenti a tante vicende tutt’altro che edificanti di politica, società, costume, non importa se argentine o italiane, passate o recenti.
 

Corruzione, scriveva il futuro Papa, è il salvar sempre le apparenze (i sepolcri imbiancati contro i quali si scagliava Gesù) così che il “cattivo” divenga relativamente “accettabile” in società; è giustificarsi sempre e comunque nel confronto tra le “buone maniere” delle mancanze proprie e l’evidenza scandalosa di quelle altrui; è la perdita, in definitiva, del pudore che custodisce la verità. Per il corrotto il mondo si divide in complici e nemici. E i buoni risultati che così consegue è come se lo ubriacassero di un tronfio ottimismo. Ma il guaio vero è che in genere non si diviene corrotti di colpo. E’ piuttosto un cammino su cui si scivola senza accorgersene in un’abitudine di vita. Come l’alito pesante, paragone tanto rozzo quanto efficace efficace: chi lo ha non se ne rende conto, sono gli altri a dover farglielo notare. A volte ci vogliono sventure improvvise come malattie, lutti, tracolli finanziari, per rimetterli in carreggiata.
 

Oltre alla perizia con cui la materia è sviscerata, il 

 

 

 

grande interesse del primo libro italiano di Bergoglio (pubblicato in coppia con un altro, “Umiltà, la strada verso Dio”, dal medesimo editore) sta nella preziosa luce che getta sul neoeletto Papa, confortando numerose liete impressioni delle prime due settimane esatte, oggi, di pontificato. La semplicità, anzitutto, tratto più autentico e personale del Bergoglio ieri sacerdote e vescovo, oggi Pontefice. Che non si fa remore ad utilizzare proverbi ed espressioni popolari (quelli della nonna), o paragoni attinti dalla più banale quotidianità (l’alito cattivo), senza nulla togliere alla “sostanza” del discorso, che anzi ci guadagna in freschezza e immediatezza e non perde nulla in efficacia. Un pastore che mostra di aver ben presenti, nell’orizzonte delle sue riflessioni, le questioni più rilevanti del vivere collettivo senza approcciarle tuttavia con astratte categorie ideologiche, bensì con quelle più concrete con cui la sapienza cristiana conosce l’uomo di ogni tempo. 

Vedere per credere alcune omelie che pure non hanno avuto grande eco, in quanto pronunciate in circostanze non ‘ufficiali’ per i responsabili della comunicazione del Papa: quelle delle messe celebrate ogni mattina a Santa Marta, la residenza che papa Bergoglio ha preferito, notizia appena confermata, al ben più confortevole appartamento con affaccio su piazza san Pietro. Nell’“albergo” vaticano ha modo infatti di intrattenere più contatti quotidiani con un maggior numero di persone, dettaglio anche questo che rivela molto di lui. E di giorno in giorno sta riunendo alla messa che celebra alle 7 le diverse categorie di lavoratori del Vaticano, come mostrano varie foto circolate sui media.
 

Scorrendo dunque quanto delle prediche è filtrato alla stampa, sorprende l’assiduo ricorrere di temi come peccato, misericordia, pazienza di Dio, tratti dalle letture del giorno come farebbe senza troppi giri di parole un qualunque sacerdote coi suoi parrocchiani. Come ieri martedì, parlando agli altri ospiti alloggiati nella casa. Ogni uomo vive la “notte del peccatore”, ma Gesù ha una “carezza” per tutti. C’è notte e notte però, distingue il Papa traendo spunto dalla notte in cui Giuda tradì Gesù. La “notte del corrotto” è la peggiore, ”notte definitiva, quando il cuore si chiude”. Diversa è la “notte del peccatore”, che noi tutti conosciamo, perché è “provvisoria, poi la speranza si fa largo e ci spinge a un nuovo incontro con Gesù. La cosa più bella, è dire il nome del peccato”, con la confessione, sapendo che così “ci sarà sempre quella carezza del Signore”.
 

 

 

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