( continuazione...) 

 

 

 

La vita che chiamiamo spirituale è così intessuta dentro gli equilibri molteplici della materia, così miracolosa­mente connessa con le variazioni che accadono in questa fascia attorno al pianeta che abbiamo acquistato un nuovo senso di responsabilità, proprio mentre la nostra violenza ha toccato i limiti. Stamani, in questo giorno di Pasqua, ci è stato dato l’annuncio che nelle profondità della terra è esplosa una bomba atomica sperimentale. Questa terra è scossa dalle nostre follie. E così la nostra responsabilità aumenta. Il nostro compito morale non è, come riteneva troppo facilmente la mentalità religiosa arcaica, di scivolare sulla vita terrena per appagarci nel pensiero della vita eterna. Questo modulo religioso arcaico ha reso vacuo, per tanti aspetti, l’annuncio che abbiamo ascoltato. Noi sappiamo che la vita che viviamo e quella che accogliamo nelle nostre braccia dal nutrimento terrestre che continuamente la genera, è un bene indivisibile. Ed è di questa vita che noi vogliamo parlare. Non possiamo metterla tra parentesi consegnandola al dominio della morte perché così facendo noi colpiamo nel centro la singolarità dell’annuncio pasquale. Siamo entrati, da qualche tempo, in una zona dell’esperienza collettiva e individuale del tutto nuova. Il duello fra morte e vita è un duello che oggi sembra dare una prevalenza, mai avuta, alla morte, perché essa non opera più all’interno della specie, come sempre è avvenuto. La morte recideva la vita degli individui lasciando sopravvivere quella della specie umana, per cui l’individuo moriva con la certezza che la sua eredità era destinata a correre verso il futuro lungo la linea delle generazioni. Una specie di eternità sostitutiva vibra perfino nelle viscere, nella fisica dell’uomo. Avere figli vuol dire andare verso il futuro: si può morire sapendo di non morire. Ora però il senso della morte cinge totalmente la specie umana e ogni specie vivente. Noi siamo insidiati come da un’acqua nera sotterranea che pervade l’intera falda dell’esistenza. È un fatto nuovo che deve porci interrogativi nuovi sia al livello morale che al livello conoscitivo. Noi sentiamo che il mistero della vita è un mistero che non possiamo sezionare a nostro piacimento: ci sarà chiesto conto della vita di questo pianeta. Se noi leggiamo il messaggio con questa mentalità, del tutto conforme al nostro tempo, senza barare, lo sentiamo per un verso così lontano! La fine delle cose e la fine della nostra vita individuale sembrano un destino ineluttabile. Nessun sepolcro si è mai aperto, la morte trionfa e noi raccontiamo, su questo sterminato panorama di sepolcri sigillati, la nostra certezza. Perché lo facciamo? Con quale fondamento? Intanto io penso che ci aiuta a darci una risposta, che sia conforme al messaggio e conforme ai livelli della coscienza di oggi, il riconoscimento di questa inesplicabilità della stessa vita. Essa non è una tappa segnata in maniera determinata, finalistica nel divenire dell’universo, ha una sua inesplicabile contingenza: c’è, ma non sappiamo perché. Questa contingenza, questa resistenza del fatto della vita ad ogni spiegazione, la circoscrive di mistero. Essa è veramente una realtà meravigliosa e inesplicabile. Se voi pensate alle galassie, al vuoto di questo infinito spazio che ci circonda, se pensate alla dimensione del tempo sterminato che abbiamo alle spalle, se pensate a come la vita che ora viviamo e che trasmettiamo sia un avvenimento precario che si è realizzato ma attraverso rischi e scelte del tutto casuali - così sembra - noi siamo presi, anche con rigore razionale, senza bisogno di appellarci al mistero di Dio, dalla constatazione che questa realtà è veramente misteriosa.

 

Non c’è scienza che possa darci la spiegazione del perché la vita c’è. E oggi essa è rimessa - ed ecco l’altra osservazione importantissima - alla scelta dell’uomo. Noi possiamo decidere del destino di tutte le creature e non solo delle creature dentro la specie ma di tutte le creature viventi. Anche i prodotti della terra - i fiori, le erbe... - ci guardano, lo abbiamo sperimentato appena un anno fa, come smarriti, come impauriti dalla nostra potenza micidiale. Le acque dei torrenti, i frutti degli alberi sono invasi da una specie di violenza omicida che coinvolge tutto il creato. Questa situazione nuova, che ogni tanto viene a galla, gli uomini di questo mondo ce la nascondono. Sappiamo che siamo inseriti dentro un potere il cui compito fondamentale sembra diventato quello di occultare la verità. Nell’epoca delle informazioni fantascientifiche - ci sono stazioni spaziali che ci informano su tutto - si è raggiunto un livello di disinformazione programmata che mai è stato raggiunto nel passato. Siamo dentro un potere il cui fine non è la vita, è la conservazione di sé, perciò è - diciamo pure la parola mitica - il regno del diavolo di cui oggi ci parlano gli Atti degli Apostoli: «Gesù passava liberando coloro che stavano sotto il potere del diavolo». Potere del diavolo è questo potere omicida che trionfa in tutte le forme di degradazione dell’esistere, dalla malattia che nasce dalla fragilità stessa della carne alla malattia con tratta dalle contaminazioni dell’ambiente. Siamo dunque nella necessità di assumerci la responsabilità del futuro della vita nel pianeta. Questa è la nostra condizione. Da una parte sentiamo che la vita che ci è stata trasmessa e che ci lascerà è un flusso di cui non conosciamo l’origine, dall’altra sentiamo che questo flusso vitale ora dipende da ciò che noi scegliamo. Siamo proprio addossati alla precarietà ed alla responsabilità come mai prima. Aver fede significa aprirci agli interrogativi. Questa vita che viviamo nello smarrimento degli spazi e dei tempi è interna ad una intenzione? C’è un amore che la custodisce? Siamo radicalmente soli? Aver fede significa affermare che questa vita è interna ad un amore, che noi chiamiamo Dio, e che ci dè la responsabilità di custodirla. Dio ha posto l’uomo nel paradiso terrestre perché coltivasse la terra da Lui creata. Noi siamo in questa realtà vitale con la responsabilità di svilupparla, di farla crescere fino alla pienezza - questo ci dice la fede.

 

La morte non è un evento definitivo in quanto in Gesù Cristo, Dio ha manifestato il suo disegno che è il trionfo della vita. In quale modo? in che forma? Questo sorpassa la nostra capacità di intendimento. In fondo non ci dimentichiamo che anche i testimoni della resurrezione hanno visto un sepolcro vuoto. Questo è il punto termine dell’esperienza umana. Essi non hanno potuto raccontare di aver visto la resurrezione, hanno soltanto visto il Cristo risorto e lo hanno visto nel momento della fede in base ad un appello, ad una chiamata: ogni apparizione è preceduta da una chiamata. Il destino della cognizione del Cristo risorto è interno alla libertà di Dio e alla libertà dell’uomo, anche se il senso di quella resurrezione è per tutte le creature. In questo evento che io ricalco sulla parola che avete ascoltato, c’è un momento decisivo ed è che questa resurrezione non è stato un gesto gratuito, inesplicabile da parte di Dio, è stato come una risposta di Dio alle operazioni dell’uomo.

 

Quest’uomo Gesù è stato condannato a morte, appeso ad un legno come un delinquente. La sua resurrezione è come la necessità morale della vita che ha vissuto perché Egli non si è mai contaminato con i poteri del diavolo, cioè con i poteri di morte. È stato emarginato dalle organizzazioni sacre e profane di questo mondo perché Egli amava la vita ed era venuto a portare la vita e a portarla abbondantemente. Era venuto a portare il vino sulla nostra tavola, a dare la vista al cieco, a far camminare i paralitici, era venuto a lottare contro le forze della morte, che non sono solo le forze che hanno le loro teste di ponte nella nostra carne fragile, ma hanno il loro insediamento privilegiato nelle organizzazioni in cui siamo inseriti. Per questo, Gesù fu contro il potere ed il potere lo ha eliminato in piena concordia. Al vertice, i rappresentanti - Caifa, Erode, Filato - in continua discordia fra di loro per ucciderlo furono tutti d’accordo.

 

Quest’uomo totalmente alieno dalle opere di morte, solidale con i semplici che portano il peso delle opere di morte, con i poveri, con i miti, con i facitori di pace è passato in questo mondo di violenza senza violenza. Nessuno, si può dire senza giocare sulle parole, ha amato la vita come Gesù, dato che i nostri vitalismi ideologici, le nostre voglie di vivere sono spesso parenti della morte e la producono. Quando pensiamo ai sollazzi, ai divertimenti dobbiamo sempre fare i conti che c’è qualcuno che ne porta le spese. Se noi in questi giorni spendiamo tanti miliardi, sicuramente qualcuno muore di fame a causa nostra. C’è un legame. Nella sfera vitale non ci sono zone riservate e separate, siamo tutti legati gli uni agli altri. È un dato scientifico. Non solo l’uomo all’ambiente fisico, ma l’uomo all’uomo, ovunque collocato nel pianeta. Perciò non ci lasciamo abbacinare dalle forme vitalistiche in cui sembra trionfare la voglia di vivere dell’uomo: la voglia di vivere, se la rivoltate dall’altra parte, è voglia di morte. Quest’uomo è passato in mezzo agli uomini come amante della vita. È Lui che ci ha parlato degli uccelli del cielo, dei gigli del campo, è Lui che ha dato gioia agli sposi con il miracolo del vino, è Lui che «è passato - come dice Pietro nel brano di oggi - beneficando e risanando tutti». Questo è il mistero del Gesù uomo. La resurrezione non va scissa da questa forma di esistenza: è il vizio in cui noi, in realtà, cadiamo, e non a caso. Anche quando diciamo che Gesù ci ha aperto le vie alla vita eterna diciamo una mezza verità. In realtà Egli ci ha aperto le vie alla vita senza aggettivi. Mettendo l’aggettivo noi ci dispensiamo dal prendere sul serio quello che Egli ha fatto. L’astuzia religiosa ci parla della resurrezione sollecitando le coscienze a contemplare l’al di là perché poi si rassegnino all’al di qua. Questo imbroglio, ci è proibito. Chi crede nella resurrezione dovrebbe vivere, nella consegna del pudore e del riserbo.

 

Ci sono parole che hanno acquistato, per una specie di falsificazione nel codice linguistico comune, una loro intima falsità per cui è bene tenerle in castigo, nel silenzio. Si può parlare di resurrezione dopo che si è fatto tutto il resto e fare tutto il resto significa essere – uso ora le parole che mi suggerisce Paolo - come «un lievito nuovo». Essere un lievito nuovo, pasta nuova, significa liberarci dal vecchio fermento di morte. Non è un compito semplice, perché implica una consegna di vita del tutto libera da ogni ipoteca di complicità con le forze di morte. Siccome il sistema in cui siamo inseriti è, in tutte le sue articolazioni, dominato e attraversato dal virus della morte, noi dobbiamo, in tutti i nostri contatti con la realtà, invertire la rotta, cambiare il sistema di vita. Lo possiamo fare. Nei rapporti privati, liberandoci totalmente dallo spirito di antagonismo, nei rapporti pubblici abolendo la categoria del nemico che va odiato e distrutto - questo ci hanno insegnato - per restituire le dialettiche umane alla loro altezza morale, alla loro dignità razionale. Non siamo uguali, siamo diversi e la diversità implica confronti e a volte competizioni, ma dentro questa pregiudiziale, che si ispira al senso della vita, che ogni modo di prevalere sull’altro con la forza, con la coazione fisica o ideologica, è contro la vita. Dobbiamo inaugurare questo modo di esistere e solo allora parlare di resurrezione. Ricordo la parola di un grande non credente: «Dobbiamo vivere in modo che se Dio esiste abbia torto». Dobbiamo vivere in modo che la morte appaia un assurdo, un segno di ingiustizia. In realtà però viviamo in modo che la morte è quel che ci meritiamo perché siamo suoi complici. Questo cambiamento, questa conversione è il compito di tutti i nostri giorni. Per una specie di rapida omologazione, ciò che di terrificante vediamo sulle frontiere fra i blocchi è perfino dentro una famiglia, è perfino nei nostri rapporti intersoggettivi. Un’oscura lama ci attraversa e siamo portati a combatterci e ad essere seminatori di tristezza e di morte. I segni di questo cambiamento sono sotto i nostri occhi. Un bisogno nuovo di stabilire un rapporto con le cose, con la natura, di liberarci da questa smania febbrile del progresso a prescindere da ciò che esso significhi, da questa corsa ad una produzione fino ad una tale eccedenza del prodotto che non sappiamo più dove metterlo, mentre i nostri fratelli muoiono di fame. Siamo dentro questa follia. Dobbiamo liberarcene. Questo dovere ha un significato morale e politico. La morte di Gesù fu una morte politica e non una morte privata, porta i sigilli dei poteri di quel tempo. Ecco perché l’annuncio pasquale non è fatto per darci una provvisoria esaltazione immaginativa, è fatto per risospingerci alle radici dove noi elaboriamo le nostre scelte fondamentali. È lì che tutto si decide. Dio guarda nel cuore e non alle nostre chiacchiere o ai nostri riti. È in questa profondità, dove noi ci troviamo di continuo al bivio fra morte e vita, che decidiamo di noi stessi e decidiamo del futuro del mondo. Fatta questa riflessione, acquistiamo in qualche modo il diritto di abbandonarci al rito, alle parole sacre, ma contenendole coscientemente dentro la riserva che abbiamo posto: tutto questo è vano, anzi è menzogna se non passa attraverso il filtro del senso di responsabilità che abbiamo cercato di rievocare sulle pagine della Scrittura.