( continuazione)

 

 

 

 

 

 

La Pasqua eterna dell’uomo

 

Richiamo alcuni aspetti della Pasqua. Nel Vangelo di Giovanni, leggiamo: «Se il chicco di grano non muore, non potrà dare il suo frutto». Queste parole, che Cristo rivolge a dei greci, si ritrovano nel mistero di Demetra e di Dioniso e nell’iniziazione ai misteri di Eleusis, quando, nella manifestazione del mistero supremo, agli iniziati veniva mostrata una spiga matura. Dove muore il chicco di grano? Nell’umidità della terra; nel battesimo, per noi cristiani, cioè nella seconda nascita che avviene nell’acqua, che è il solvente universale e si manifesta poi nell’aria, nello spirito, che è l’ascesa della forma vitale del chicco di grano nella luce solare. Quando Cristo, parlando con Nicodemo, dice: «È necessario che l’uomo rinasca», trascrive un’esperienza di sempre della coscienza umana, che dobbiamo cioè morire per rinascere, che dobbiamo dissolverci in quell’umido che è la nostra terra, perché in noi erompa poi quella parte nobilissima, quella quintessenza del nostro essere che ci porta a fruttificazione. Il morire per nascere, il dissolversi per dare frutto, la vita che si scompone nella morte per raggiungere la risurrezione: questi sono i temi eterni della coscienza umana. Li troviamo ovunque, dall’America Latina all’estremo Giappone. Nel mondo mediterraneo si trova il grano che è l’alimento fondamentale della nostra esperienza di uomini occidentali. Quando il grano si dissolve nella terra torna ad essere germe, che è la pura essenza di vita, ed emerge, come nuova creatura, nell’aria luminosa; discende negli inferi e di lì risorge a nuova vita. Nella letteratura occidentale uno dei temi ricorrenti è la discesa agli inferi: nell’Eneide, in Giona, in Giobbe, nell’Egitto, in Dante. Vuol dire che è un archetipo fondamentale della nostra profonda esperienza religiosa.

 

Per questo non possiamo parlare di Pasqua 1982[1], ma dobbiamo parlare della Pasqua eterna dell’uomo, della possibilità che ci è offerta di discendere nel profondo delle nostre radici umane, della terra, per scoprire la nostra essenza e risorgere. Di questa discesa e ascesa, di questo annientamento nella morte e risurrezione nella vita, Cristo è l’archetipo supremo, è il modello degli uomini, non da imitare, ma da guardare per vivere la nostra vita di uomini e di donne.

 

Tale processo è narrato in diversi miti: nella nostra tradizione mediterranea il mito di Osiride, le cui membra vengono disperse nel fiume – l’acqua primordiale – e ricomposte da Isis, ci ricorda la morte, la decomposizione necessaria per poter risorgere alla seconda nascita; Demeter piange la scomparsa nel profondo della terra di Kore, che poi riappare nella primavera; così Adone ucciso è pianto da sua madre e poi risorge. Giona gettato nelle acque, divorato da un grosso pesce e poi vomitato sulle spiagge di Ninive, è l’uomo rinato. Anche nel mito di Edipo - che non va letto secondo l’interpretazione di Freud, ma come mito religioso che indica il cammino dell’anima - il rientrare nell’utero materno descrive il cammino religioso dell’uomo, che si rigenera e rinasce, come Cristo che discende negli inferi, nel seno della terra, e poi risorge.

 

Io devo morire, discendere negli inferi, rientrare nell’utero di mia madre per rinascere, ritrovare la purezza del mio essere, quella che avevo nel momento in cui sono apparso all’esistenza. Ritrovare questa forza germinale che è nell’utero di nostra madre, che ci trasmette oltre alla vita anche tante informazioni che vengono dai nostri antenati e che vengono poi deformate nella matrice che ci accoglie che è la società, la famiglia, la scuola, la chiesa, il partito, la tradizione. Per poter nascere come uomini autentici dobbiamo ridiscendere, ripercorrere tutto il cammino di uomini fino alle nostre origini e ritrovarci allo stato germinale: allora possiamo risorgere.

 

Nel tempo storico, tutto viene dualizzato: Dio e il seme di grano nelle parole del Cristo e anche nelle parole dei misteri greci; io e Giona, io e Cristo; io che contemplo e mi commuovo delle vicende di Cristo. È la nostra mente che dualizza tutto. Per esempio, noi distinguiamo il giorno dalla notte: la notte come momento della tenebra e il giorno come momento della luce. Ma è possibile dire il confine che separa la tenebra dalla luce, il momento massimo della notte e l’inizio dell’alba? È possibile dire la separazione precisa che c’è nel nostro essere tra materia e spirito, tra anima e corpo? Quante malattie derivano in noi dall’anima! La psicosomatica ce lo dice: vuol dire che in noi tutto è uno; però la nostra ragione concreta, matematica, ha sempre bisogno di distinguere: distingue uomo da donna, duro da tenero, luce da tenebre. Nella realtà, invece, non sappiamo separare nettamente queste realtà che nel nostro linguaggio dualizzato. E così è anche nella nostra esperienza religiosa: tutto è uno, io e Cristo siamo una cosa sola, io e Dio siamo una cosa sola.

 

Noi tutti veniamo dall’eternità. «Prima che Abramo fosse, io ero», ha detto Cristo. Questa frase la possiamo ripetere tranquillamente e serenamente anche noi senza avere paura di orgoglio, perché è la nostra grandezza ed è la nostra responsabilità. Prima che noi nascessimo nell’utero di nostra madre, «eravamo» nel mondo di Dio dove tutto è istante, tutto è presente. Quando poi il nostro io personale è apparso all’esistenza, allora abbiamo cominciato a computare i nostri giorni secondo il ritmo del tempo, ma la nostra realtà invece è oltre il ritmo del tempo, è nell’eterno presente. Allora quando diciamo: «io e Cristo» e ci separiamo da Cristo, non siamo nella giusta considerazione religiosa, perché anch’io sono «luce da luce, Dio vero da Dio vero»: anche in me il Verbo eterno ha preso carne. Ce lo dice san Paolo: «Non sono io che vivo, ma è Cristo che vive in me». Forse l’istanza e l’esigenza più urgente e prepotente del nostro tempo è questa: superare tutte le distanze tra noi e il mistero e vivere il mistero come una cosa che ci compete, una cosa che ci riguarda. Nella messa diciamo: «per Cristo» e finalizziamo tutto al Cristo, all’uomo vero; poi «con Cristo» e camminiamo con Cristo vicino; e poi «in Cristo» ed è il nostro tempo, il momento della identificazione del nostro essere con Cristo: questa è una forma di coscienza possibile, è la vicenda archetipale che diventa nel tempo divino, nel tempo di Dio, la nostra personale vicenda. Proviamoci a ripetere ogni giorno: «io sono luce da luce», in me c’è una luce che deve crescere e travolgere tutto il mio essere, e vedremo allora ridimensionarsi e riordinarsi tutte le creature, e il nostro mondo così smarrito e così sofferente, sotto un altro punto di vista più giusto. Lo vedremo in Dio, con gli occhi di Dio, e ci sentiremo più sereni e più forti, meno logorati dalla consumazione del nostro essere che si compie nel tempo, perché avremo raggiunto il nostro istante eterno. Proviamoci a capire le cose da questo punto di vista: non è un invito all’orgoglio, ma alla massima responsabilità, perché se io mi sento figlio di Dio, in quanto tale mi sento responsabile di fronte a tutte le creature come portatore di una vita che non è la piccola vita che viviamo come uomini: non sono le piccole mete degli uomini, ma le infinite mete di Dio.

 

Nella lettera ai Filippesi san Paolo dice: «Cristo Gesù, pur possedendo la forma divina, non ha riguardato come sua prerogativa l’essere uguale a Dio, si è annientato, è disceso nel nulla assumendo la forma dello schiavo, divenendo uguale agli uomini, nella natura umana si è abbassato accettando la morte e la morte di croce» (2, 6-8).Questo è avvenuto in noi: Gesù Cristo, il Logos eterno, nella sua manifestazione è disceso nella profondità della materia per darle una spinta ascensionale verso l’assoluta luce, l’assoluta verità, l’assoluto amore. Ma se noi limitiamo questo fatto sconvolgente della discesa della divinità nella carne umana soltanto nella realtà del Cristo, diveniamo spettatori di un grande spettacolo che Dio ha svolto davanti al nostro sguardo, che ci può commuovere, ma non ci prende.

 

Se io comincio a pensare che nella profondità della materia e della mia carne, nelle parti più tenebrose del mio essere è discesa la luce divina per illuminarmi e per darmi la spinta verso una trasformazione e una trasfigurazione, allora la mia contemplazione, la mia considerazione del mistero cristiano cambia: in me è discesa la luce eterna, «Egli è la luce che illumina ogni uomo che viene all’esistenza», in ciascuno di noi c’è la luce eterna che scende nelle nostre tenebre per vivificarle e per trasfigurarle. È disceso nella profondità della mia natura umana il Verbo: in me e in ciascuno di voi, in ogni uomo, anche nel più delinquente, c’è il Logos che è diventato carne.

 

Per questo Cristo è l’uomo, l’uomo archetipico, l’uomo che è agli inizi e al termine della nostra vicenda di coscienza umana, è l’uomo vero che porta la salvezza a ciascuno di noi e fa fiorire la nostra carne. Cristo si è annientato in me, è disceso nel profondo del mio nulla, si è inserito nelle mie tenebre, nel mio male, nei miei smarrimenti, nelle mie passioni, è disceso nelle zone oscure di tutta l’umanità, nella mia umanità, nella vostra umanità e nell’infinita umanità che esiste in questo mondo; è disceso nei lupanari, negli ospedali, nelle spaventose prigioni di tortura, nei torturati e anche nei carnefici, nelle vittime e negli assassini, negli umili e nei superbi, accogliendo e suscitando dovunque speranza e pentimento. In me, in voi, in ogni uomo, Cristo è disceso come presenza di vita vera, di luce nuova e di incrollabile fiducia. Come il regno di Dio, Gesù Cristo è dentro e fuori di noi: dentro come germe di vita, fuori come germinazione divina.

 

Allora il Cristo è come il vero Prometeo, ha riportato nel profondo del creato il fuoco delle più folli speranze, dei più assoluti sogni di Dio. Il mito di Prometeo viene sempre interpretato come atto di orgoglio: invece è il più umile e il più grande servizio, espresso nella forma mitica, reso all’umanità. Cosa nasconde il mito di Prometeo? Ci parla della discesa nell’uomo del fuoco più meraviglioso, la scintilla del fuoco divino che s’incarna nella vita e che con la sua discesa nella materia viene crocifissa sulla croce dei quattro elementi, scintilla che l’uomo ha la missione di estrarre e di far risplendere nell’alto. Il Figlio dell’uomo deve essere innalzato perché riordini in se stesso tutto il creato. La scintilla divina è il quinto elemento nell’uomo. Il numero cinque è il numero dell’uomo: in noi ci sono quattro elementi, in questi quattro elementi noi siamo crocifissi e nel punto d’incontro di questi quattro elementi sorge la quintessenza dell’uomo, la scintilla divina. In questo punto d’incontro delle forze che costituiscono il nostro essere, l’uomo deve porsi nel più perfetto degli equilibri. Allora, ritornando al mito di Prometeo, l’uomo, come Ercole - il forte -, potrà sconfiggere l’aquila che gli divora il fegato e togliere Prometeo - il lungimirante - dalle catene che lo legano alla roccia degli elementi.

 

Dobbiamo prendere coscienza seriamente, scavalcando tutti i dati della nostra ragione, tutte le perplessità, le incertezze, i dubbi, che in noi c’è una scintilla di vita, che in noi c’è un tantum di luce di Dio: «Egli è la luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo». In me, in ciascuno di noi, in ogni uomo; anche nel più dissoluto, nel più delinquente, nel più deformato dei figli dell’uomo, c’è un riverbero della luce infinita di Dio che è il suo Verbo. Se io prendo coscienza di questa luce, di questo elemento divino del mio essere, di questo fuoco che abbiamo rapito al paradiso di Giove e che è in noi e che stimola la nostra natura a trasformarsi, se prendiamo coscienza di questo, tutto viene trasformato. Io credo che nel momento presente, a noi che crediamo, venga richiesto questo atto di fede assoluta.

 

 

 

Il simbolismo della croce

 

Il vocabolo “croce” ci riempie di brividi e lo vorremmo abolito dal nostro vocabolario. La croce indica necessariamente il patibolo: la croce è stata trasformata in patibolo dal sadismo degli uomini che è sempre operante. “Croce” viene da un vocabolo sanscrito - kreuk - che significa «tumulo», «elevazione», il palo che sostiene il pagliaio; e patibulum (da patere = aprire) - patibolo - viene da un altro vocabolo che esprimeva un palo orizzontale che veniva messo per chiudere le porte; è quello strumento che fa aprire e chiudere la porta, il patibulum. Poi i signori del tempo si sono serviti di questo patibulum per legare le mani agli schiavi che volevano fustigare, perché non si ribellassero. Così è diventato patibulum nel senso di supplizio. Poi è prevalsa la croce, forma di sofferenza che ci viene dall’Oriente: c’erano dei pali verticali piantati per terra e il disgraziato, condannato a morte, veniva legato al patibulum e doveva attraversare tutta la città tra le ingiurie del popolo e le fustigazioni dei soldati. Così Cristo che porta la croce dobbiamo immaginarcelo, legato a questo palo, che attraversa la città e poi viene il cireneo ad aiutarlo. Ma la croce non erano i due pali congiunti. Arrivavano sul posto dove erano innalzate le croci e il palo veniva sollevato con delle funi lungo l’asse del palo infilato a terra, verticale. Questa è la forma tragica di un sistema di uccisione inventato dall’uomo.

 

Nella simbologia il segno della croce è antichissimo quanto l’uomo; ha un significato e un valore cosmico e antropologico; indica l’universo e l’uomo. L’asse verticale che va nel profondo e in alto è un movimento infinito nella direzione verticale. L’asta orizzontale è un movimento infinito nella direzione orizzontale. Quando questi due movimenti si intersecano, formano un punto di convergenza e un punto di interazione, un punto che ferma la spinta orizzontale e la spinta verticale nel percorso all’infinito: li ferma e nasce un quinto momento.

 

Nella genesi della coscienza quel punto segna l’apparizione dell’autocoscienza.

 

L’animale, che è legato all’orizzontalità, non raggiunge l’io cosciente, l’io decisionale dell’uomo. L’uomo, invece, che nella sua verticalità allarga nell’orizzontalità le braccia e diventa partecipe di questi due movimenti, costituisce in sé il punto di inversione e di sintesi di queste due spinte e costituisce la nascita dell’io cosciente, dell’io responsabile. Nei disegni dei popoli antichissimi la comparsa del segno della croce suppone che l’uomo in quel momento ha avuto l’intuizione della nascita del proprio io responsabile. Troviamo vari tipi di croce: un tipo di croce è un cerchio in mezzo al quale c’è una croce e di cui Platone dice: «L’anima del mondo è crocifissa nel corpo del mondo»: il corpo del mondo è il cerchio, il serpente che si morde la coda, il ciclo dell’eterno ritorno. In mezzo a questo cerchio c’è una croce: è la nascita della coscienza responsabile dell’uomo, è la nascita dell’individualità dell’uomo. L’uomo individuo rompe il cerchio.

 

In altre tradizioni troviamo come croce la svastica nei suoi duplici movimenti: essa indica l’eterno divenire delle cose, l’eterna manifestazione e l’eterno ripetersi delle cose. Questo lo troviamo in tutte le esperienze religiose e anche nel primo cristianesimo; soltanto che nel cristianesimo è prevalsa la croce latina. C’è poi la croce greca che ha le due aste uguali, l’asta verticale ha la stessa misura dell’asta orizzontale. Perché ha prevalso tale croce? La croce latina ci indica il passaggio della coscienza umana dalla religione del Padre, della legge, alla religione del Figlio, della libertà. Nella religione del Padre - ebraismo e teismo - la coscienza dell’uomo era sostenuta dal cerchio della legge, dal cerchio delle consuetudini, dal cerchio delle organizzazioni sociali, dal cerchio di tutte le teorie sociali. Infatti gli ebrei, per affermare la loro identità, dicevano: «Io sono figlio di Abramo» e la cura che gli ebrei hanno avuto nello stabilire le loro genealogie è perché volevano stabilire con chiarezza la loro identità vivendo in una determinata fede: «Io sono figlio di Levi, il quale è figlio di Abramo». A Roma l’identità del cittadino romano era affermata con la frase “cives romanus sum”, io sono cittadino romano. Per stare in piedi gli uomini della legge e della religione del Padre dovevano essere sorretti dal cerchio formato dalle leggi emanate da Dio o dalla società alla quale appartenevano. Ecco la differenza della croce latina - senza il cerchio - dalla croce ebraica o celtica che ha il cerchio. Questo è legato intimamente alla nostra coscienza profonda di uomini.

 

Quando Gesù Cristo fu predicato nel mondo romano, i primi romani passati al cristianesimo rimasero meravigliati della figura di Cristo, della sua libertà, e si accorsero che Cristo stava in piedi da se stesso; infatti i suoi discepoli trasgredivano il sabato, i farisei protestavano e Cristo non protestava. Cristo non osservava il sabato per servire la vita, non accettava il cerchio sociale della sua religione, come pure non ha accettato il cerchio familiare: «Chi è mia madre, i miei fratelli, le mie sorelle? Quelli che compiono la volontà di Dio». Non aveva legami di sangue: «Io sono più grande del tempio ed è venuta l’ora di adorare Dio in  spirito e verità». Cristo era vissuto nella conquista della libertà interiore, libero da ogni determinismo di natura, di famiglia, di popolo, di religione. Paolo, nella lettera ai Galati, dice: «Eravamo legati dalle catene della schiavitù a questo mondo». Questo mi sembra il punto centrale del simbolo della nostra croce: che Cristo ha tolto alla croce, nel punto di inserimento delle due aste – il segno della nascita e della individualità dell’uomo -, il cerchio del Padre e lui stesso si è fatto croce e con la forza del solo io cosciente poté dire: «Io sono prima di Abramo».

 

La croce latina, priva del cerchio protettivo, ha compiuto largamente la sua missione: l’uomo può stare in piedi senza ricorrere al cerchio della legge, della consuetudine, della razza, del clan, della famiglia: è libero. E come Cristo l’uomo può dire: «Io sono prima che Abramo fosse». La libertà richiede una scelta: la scelta implica anche la libertà di sbagliare e di peccare. Nella religione del Padre l’uomo rischiava di perdersi nel cerchio dell’eterno ritorno, nella ripetizione, nell’osservanza; nella religione del  Figlio l’uomo è in una posizione dialettica con il Padre, con la legge, con tutte le consuetudini.

 

La coscienza umana è stata liberata dal cerchio protettore del Padre e l’incrocio delle strade implica sempre una scelta, una lotta, una presa di coscienza ferma, una capacità di decisione netta e chiara. Cristo ce lo dice: «Non sono venuto a portare la pace, ma la guerra, la spada». Questo era il rischio dell’esperienza cristiana: la divisione, l’egoismo, la separazione. Dobbiamo affrontare coraggiosamente questi rischi per raggiungere la libertà e, attraverso la libertà, l’amore. Io amo non perché mi viene imposto, ma l’amore è il frutto della mia libertà.

 

L’amore è il frutto della maturazione del nostro essere, è il frutto della nostra libertà, della nostra liberazione da tutto ciò che ci viene detto, dalle varie matrici che nella vita ci accolgono e che continuamente vogliono divorarci. Io sono libero e perché sono libero amo, indipendentemente dalle simpatie e dalle antipatie, dalla mia religione e dalla religione dell’altro, dal colore della mia pelle, dal partito in cui milito: io amo perché sono libero. Questa è la grandezza alla quale ci porta il mistero cristiano, la religione del Figlio. Nel mondo statico del Padre il Figlio ha introdotto dinamismo, movimento, l’idea di un cammino personale; nell’asse verticale Cristo ha introdotto la forza discendente: il Verbo si è fatto carne. Lucifero, che vuole angelicarsi assolutamente, disprezzando e dimenticando la carne, viene preso da Cristo e spinto verso la verticalità.

 

Quindi un vero cristiano, inserito nel punto di incrocio delle due spinte, verticale e orizzontale, è la piena riconciliazione di Lucifero e del diavolo, della materia e dello spirito. Se io cerco Dio dimenticando la materia, trovo Lucifero e mi spingerò come un satellite verso l’assolutamente alto, ma non troverò mai la realtà di Dio; come pure, diffondendomi nella materia, non troverò mai la realtà di Dio. Questo è il nostro dramma ed è il frutto della nostra liberazione in Cristo.

 

Io abbraccio la mia carne perché con la mia carne devo ascendere, abbraccio il mio spirito perché con il mio spirito devo discendere. Questo costituisce una sensibilità profonda del nostro tempo: la riscoperta del nostro corpo. Dobbiamo prendere coscienza di questa umilissima e indispensabile compagna della nostra vita che è la carne; prendendone coscienza, la spingiamo alla trasfigurazione e alla risurrezione. Così dobbiamo prendere coscienza del nostro spirito e dirgli di non sognare di essere un angelo, ma di scendere sulla terra, interessarsi della sua carne e della carne di tutti gli altri uomini. Allora si ha la riconciliazione.

 

 

 

Vivere la Pasqua oggi

 

Uno dei fatti di cui dobbiamo prendere coscienza è che l’universo si degrada a tutti i livelli lentamente, si involve, non evolve; l’idea del progresso è stata un’idea che ci ha illuso, non ci ha fatto vedere la realtà immediata e concreta. L’universo si degrada sul piano fisico, sul piano energetico, sul piano del tessuto chimico della terra e sul piano morale. Questa è una discesa agli inferi: l’universo si involve verso un appiattimento di valori. In questo universo noi crediamo nella risurrezione, siamo chiamati a portare un universo differente, l’universo della risurrezione. Questa è una responsabilità nostra personale. Dobbiamo riavvicinarci alla scintilla divina, a quel fuoco primigenio che è in ognuno di noi, con volontà consapevole che non sottostà a nessun comando. Quindi liberarci da ogni cerchio che vuol sorreggere la nostra personale coscienza: i grossi problemi del mondo immediato e lontano li devo affrontare con la mia coscienza.

 

Dobbiamo liberarci da ogni cerchio che vuol sorreggere la nostra personale coscienza, liberarci dalla superstizione storica che ritiene che sia la storia che fa l’uomo, dalla nostra coscienza nazionalistica, razziale, familiare, sociale e anche quella della distruzione che la tecnica ha operato profondamente in noi. All’universo della caduta dobbiamo sostituire l’universo della risurrezione, impegnandoci a tessere in noi quel corpo di gloria, di risurrezione, di luce, di cui parla la nostra tradizione. Creare in noi l’universo della risurrezione.

 

Nella misura in cui riesco a essere libero, indipendente da tutte le oppressioni della legge e dei gruppi a cui appartengo, in me nasce una cellula di risurrezione. Anche gli arabi e gli ebrei cabalisti parlano del corpo della risurrezione; Esiodo parla del corpo luminoso che si forma nell’uomo che raggiunge il suo fuoco divino; e noi cristiani parliamo della risurrezione della carne, che avviene nella misura in cui riusciamo ad essere consapevoli del mistero divino di cui ognuno di noi è portatore. La religione del Figlio segna il passaggio da uno stato di coscienza di sottomissione ad un’etica di liberazione. Questa non è la banale evoluzione, ma la mutazione rivoluzionaria della coscienza individuale che sente se stessa come una monade, una cellula che racchiude una porzione di luce e di vita divina. Noi entriamo nell’esperienza della coscienza cristiana della religione del Figlio nella misura in cui riusciamo a scoprire in noi questo elemento divino, questa luce divina che ci fa dire: «Io sono figlio di Dio come Cristo».

 

Questa nuova coscienza è la forza che trafigge il mondo e lo sconfigge e lo trasfigura. L’uomo con questa forza non è più nel tempio, ma è il tempio di Dio. «È giunta l’ora in cui l’uomo rende il culto a Dio non su un monte o sull’altro, ma in spirito e verità», e «voi siete il tempio di Dio», ci dice san Pietro. Il sentimento cosciente di essere figli di Dio è un sentimento sociale o asociale? Per me è asociale, in quanto il senso di essere figlio di Dio mi fa assumere tutti i miei legami e rapporti sociali e li trasfigura, e trasfigurandoli li rende inutili o superati. Per esempio, nei confronti di mio padre e di mia madre: se mi sento figlio di Dio, considero mio padre fratello e mia madre sorella e mio padre considera me - che sono suo figlio - fratello e mia madre pure. È asociale nel senso che non distrugge i legami sociali, ma li accetta come peso della nostra vita incarnata e come sopravvivenza di un dualismo che ancora esiste tra la carne e lo spirito. Nella forma più elevata della religione del Padre, l’uomo diviene spirito nella sua fusione col padre: nelle grandi religioni dell’Oriente la fusione con Brahama è l’ultimo gradino della spiritualità, il mio io si perde nell’assoluto. Nella religione del Figlio, svelando che ogni uomo ha in sé una scintilla divina, l’uomo singolo viene reso unico e insostituibile: allora non c’è fusione con la divinità, ma comunione come termine ultimo dell’ascesa umana nello spirito. La crocifissione di Cristo compie la legge e, insieme, l’abolisce.

 

A questo punto parliamo del problema assillante  e tormentoso della morte. Il Padre ci dona la vita; nelle preghiere diciamo: «Padre, datore di vita», però nella nostra vita c’è un termine, la morte. Nella religione del Padre il trasgressore della legge, quello che rompe il cerchio, deve essere ucciso (l’Antico testamento è pieno di lapidazioni; l’Islam attuale è pieno di soppressioni: la donna che trasgredisce la sua fedeltà coniugale viene lapidata, l’uomo che ruba ha la destra amputata…). Nella religione del Figlio la morte personale viene accettata come viene accettata la vita personale, liberamente. C’è un bellissimo passo del canone nella nuova liturgia che dice: «Egli, offrendosi liberamente…».

 

Se non volete avere paura della morte, accettate liberamente la vostra morte: allora diventa sorella. Questo è un fatto importante. Cristo accettando liberamente la sua morte ha inteso di essere l’ultima vittima immolata nel cerchio della legge. Dopo di lui l’uccisione di un altro uomo fa regredire l’uomo: dalla libertà alla schiavitù. Nessuno nella religione del Figlio ha diritto di spargere il sangue se non il proprio: io accetto liberamente la mia morte, ma non accetto liberamente la morte di nessuno e tanto meno mi adopro per imporre la morte. Nella religione del Padre, Adamo colpevole viene punito con la morte, Giobbe innocente muore; nella religione del Figlio innocente ucciso e risorto, nessuno può più uccidere se non regredendo. È la grande verità che dobbiamo imparare: io ho ricevuto questa vita, questa vita ha in sé una morte, la accetto liberamente. L’accettazione libera della mia morte mi porta alla trasfigurazione e alla risurrezione. Anche gli altri miei fratelli hanno la vita con la morte; io non posso dare la morte a nessuno; se do la morte a qualcuno dei miei fratelli, regredisco in uno stato di coscienza che con Cristo è stato superato.

 

È scritto nel vangelo di Tommaso, un vangelo chiamato “gnostico” (che vuol dire “di conoscenza”): «Beato il leone - il leone è l’essenza della più elevata e sublime animalità - che verrà mangiato dall’uomo in modo che il leone divenga uomo» (io devo assumere tutta la mia animalità e umanizzarla); «maledetto - continua - l’uomo che sarà mangiato dal leone in modo che l’uomo divenga leone» (maledetto l’uomo che si lascia divorare dalla sua animalità).

 

Anche quest’anno la luna di primavera ci porta la solennità della Pasqua: Pasqua significa passaggio dalla condizione di schiavi a quella di figli, da una condizione di morte - secondo la carne - a quella di vivi - secondo lo spirito -, da una condizione di tenebre a una condizione di luce. La natura si risveglia, il seme che marcì ora riveste di verde la valle, il grano promette pane per la fame dell’uomo e per l’ostia del sacramento, la vita fiorisce. E le nostre anime che fanno? Quando verrà la primavera dello spirito umano, quando gli uomini attueranno il passaggio per aprire il quale il figlio di Dio e dell’Uomo nacque e morì, fu sepolto e risorse? Cristo ha vinto la nostra morte, quindi noi non morremo, ma - come dice san Paolo - saremo trasfigurati. È a questa trasformazione che dobbiamo tendere con tutto il nostro essere se vogliamo raggiungere lo scopo del nostro nascere e del nostro morire, perché saremo trasformati da materia corruttibile in energia incorruttibile, da esseri di tenebra in esseri luminosi.

 

Ecco sempre l’eterna dualità: la morte e la vita, Dio e l’io, l’io e l’altro, il mio e il tuo, dualità che non è altro che uno stato di trapasso dal non-essere all’essere, dall’apparenza alla realtà. Il vero significato della Pasqua deve essere, per lo spirito umano, l’acquisire coscienza di se stessi, perché se il seme di Dio, la scintilla divina, non riesce ad attecchire dentro di noi, la nostra fatica di nascere sarà stata inutile; cioè se la realtà dello spirito non riuscirà a prendere nella nostra mente il posto che le spetta, sarà inutile quanto avremo fatto, sofferto e sperato. La Pasqua annuncia il risveglio del non-essere all’essere e questa è l’acuta nostalgia dell’umana coscienza. Il mistero di Pasqua, inserito nel mistero cosmico della primavera, annuncia questa trasfigurazione, questa fioritura per fruttificare, questo avere per essere ed è in questo piano che ognuno di noi deve fare lo sforzo di lasciare fiorire e operare le ragioni di Dio, non le ragioni dell’uomo.

 

Allora chiudiamo tutti i libri che speculano sulla risurrezione: non sono le parole dei sapienti che contano! Apriamo il nostro vivente libro personale e ascoltiamo le parole che in noi dice il Verbo eterno, la parte divina e luminosa del nostro essere: parole che risuonano nel silenzio, nella solitudine dei cuori e nella pienezza della vita sconfinata, alla quale nel silenzio possiamo partecipare. In noi c’è un libro vivo: se non apriamo questo libro, non comprenderemo niente, né di Dio, né dello Spirito, né di Cristo, che sono realtà viventi. Finché consulteremo libri scritti da altri, finché ci approprieremo di pensieri pensati da altri e non cominceremo a vivere questa realtà vivente, che è la nostra esperienza religiosa che ci viene trasmessa da questa grande figura di Cristo risorto e dello Spirito, noi non potremo passare al mondo della risurrezione che, come credenti, dobbiamo creare.

 



[1] Conferenza/meditazione tenuta da Giovanni Vannucci osm a Fontanella Sant’Egidio (Bergamo), nel 1982, in occasione della ricorrenza della Pasqua, su invito di David Maria Turoldo osm.