( Continuazione )

 

 

Son tutte cose belle, ma c’è un’oggettivazione del fatto religioso, dell’oggetto religioso, mentre la realtà religiosa è intima, è immanente, stimola il nostro spirito e la nostra vitalità a trasformarsi, non dall’esterno, ma dall’interno. Ogni ascesa religiosa è sempre un’ascesa personale dell’uomo che si compie, non per gesti che realizza nell’esteriorità, ma per una sua crescita interiore, per una sua trasformazione interiore; non è la processione che ci rende comprensibile il mistero dell’Eucarestia, ma è la percezione delle conoscenze vitali che l’Eucarestia ci dà e che, scendendo nel nostro essere intimo, ci trasformano e ci danno poi degli atteggiamenti sociali, civili e umani del tutto differenti, perché animati dalla conoscenza che ci viene data dal pane e dal vino e dalla frazione del pane e del vino.

Dio non è al di fuori di noi. Io sono al di fuori di voi e voi siete al di fuori di me, però nella realtà, in questo momento tra noi c’è un’unità: quest’unità è mediata dalla mia parola; quest’unità che sentiamo tra noi è mediata da quella corrente di affetto, di simpatia e di amicizia che ora ci collega e ci rende una sola cosa in queste due realtà: parola che unisce il vostro pensiero al mio pensiero e sentimento di amicizia che ci riunisce tutti e ci fa sentire una sola cosa.

Anche il nostro rapporto umano non è mai un fatto puramente esteriore, mediato dai sensi e dagli occhi, dall’odorato e dal tatto, ma è un fatto squisitamente interiore, in quanto può nascere tra due esseri un’amicizia, può nascere un collegamento attraverso una ricerca di pensiero e di concetto. Quindi i dati dei sensi vanno presi sempre con grande cautela perché sono limitati, incompleti e non ci trascrivono la realtà. Supponete che quella pianta sia profumata: tra questa pianta e me si stabilisce un contatto di profumo, lei emana il suo profumo e io lo sento, questo legame è sottilissimo, non è percepibile, però c’è; fra me e la pianta non c’è una separazione, ma c’è un’unione che è mediata dalla sottilissima energia che è l’emanazione del profumo. E questa con i sensi non la vediamo, la sentiamo con l’odorato, ma non è percepibile e palpabile, come è percepibile e palpabile, non so, l’unità di questa tavola.

Ora, anche il fatto dell’oggetto religioso deve essere sentito da noi intimamente e interiormente. Dio non è al di fuori ma è dentro di noi, è dentro le creature, non è nell’alto, neppure nel basso, ma è nel cuore di tutti gli esseri che vengono all’esistenza. Acquistare questa particolare sensibilità profonda ci aiuta a comunicare con Dio; comunicando con Dio, scende in noi la conoscenza, scende in noi la trasformazione della vita. Ora vi dicevo che una delle esigenze più notevoli del nostro tempo, soprattutto di voi giovani generazioni, è questa: volete conoscere, non volete sentire, volete sapere. Questa esigenza di pensiero e di conoscenza che è giustissima, giustissima. Ecco, su questo angolo di vista vorrei considerare con voi il mistero della frazione del pane e del vino. La formula della consacrazione del pane, cioè le parole centrali (gli indiani direbbero «il mantra», parola magica della Messa, quella che trasforma una realtà in un’altra realtà) le conoscete: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue; prendete e mangiate, prendete e bevete; fate questo in memoria di me.

Ecco, stamani vorrei dirvi quello che io penso sia il significato di queste ultime parole: «fate questo in memoria di me». Cos’è la memoria? Qui ho raccolto una serie di testi, così vi aiuterò a capire. Il nostro linguaggio moderno è un linguaggio molto astratto, teorico, sradicato dalla realtà. Il linguaggio degli antichi e specialmente il linguaggio poetico e il linguaggio religioso era sempre un linguaggio fatto di cose. Nasceva dalla cosa e aveva un rapporto con la cosa. Per noi ricordare, avere memoria di un fatto, significa conservarne l’immagine nella mente, il succedersi dei vari eventi, oppure significa il non dimenticare un particolare nome, delle particolari nozioni, delle particolari doti, delle particolari note, oppure il non dimenticare ciò che una determinata persona ci ha dato di affetto, di amore, oppure di opposizione, di ostilità. Questo è un fatto puramente mentale, la nostra memoria.

Per gli antichi il ricordare era un qualcosa di differente. Il ricordare era il richiamare un evento, una persona, un’idea, un concetto del passato e renderlo efficace nel momento in cui veniva ricordato. Il ricordo era sempre un’azione. Noi ricordiamo una bella passeggiata, così, la ricreiamo fantasticamente, ne parliamo, non la viviamo più. Per gli antichi il ricordare era il rivivere, il ripetere un’azione che era stata compiuta nel passato, oppure mettere in attività una determinata azione, una determinata energia propria della persona, della cosa che veniva ricordata. Io vi cito qui alcuni salmi, vi cito testi dell’Antico Testamento e del Nuovo Testamento perché le parole fondamentali del Cristianesimo sono nate in una civiltà differente dalla civiltà greco-romana alla quale apparteniamo: la civiltà ebraico-cristiana è entrata in quest’altra civiltà e l’ha fecondata, e noi siamo eredi di queste tre civiltà ebraico-cristiana, greca e romana. E per percepire il valore di certi vocaboli fondamentali, li dobbiamo ricollocare nell’ambiente di origine, quindi nel mondo ebraico, nel tempo di Cristo.

Per esempio, nel Salmo 98 è detto di Iddio: «si è ricordato della sua misericordia»[2]. Cosa significa? Ha messo in attività la tenerezza, l’amore, la pietà, che vanno sotto il nome di questa qualità designata col termine “misericordia”. Dio non si è ricordato della sua misericordia e ha detto, compiacendosi di se stesso: sono misericordioso. Noi, se ci ricordiamo di un qualcosa che ci ha fatto piacere: ho fatto un buon esame, ricordiamo questo buon esame con compiacenza. Così Dio si ricorda della sua misericordia dicendo: sono il misericordioso. No! Ricordarsi della misericordia significa mettere in movimento le forze risanatrici, le forze san­tifi­canti della misericordia. Quindi azione e parola, ricordo e memoria, sono una stessa cosa. Così egli, Dio, si è ricordato di noi. Come se ne è ricordato? Se ne è ricordato attraverso un atto vitale che ha trasformato la situazione in cui un individuo veniva a trovarsi. Allora ricordare è evocare una forza, che può essere la misericordia; si è ricordato della sua ira, può essere la ira, il furore, per trasmetterla a coloro a cui si vuole comunicare.

In Osea Dio dice: mi sono ricordato di tutta la loro malizia[3]. Non è andato a leggere gli annali, ma ha scatenato le sue forze punitrici provocate dalla malizia di questa gente. Quindi il ricordo - questo tenetelo presente per capire il significato di «fate questo in memoria di me» - è sempre collegato a un’azione, che nasce da una determinata e specifica potenza; nel caso, la misericordia di Dio, oppure l’ira e il furore di Dio.

In Isaia c’è un testo molto bello dove dice: la pietra non si è ricordata della sua forza, cioè la pietra è rimasta ferma, impotente, non ha messo in movimento la sua pesantezza che ne costituisce la forza. Non si è ricordata della sua forza. Non so se vi stanca questa lezione di filologia, ma mi sembra necessaria per poter capire il contenuto del sacramento del pane e del vino, perché Cristo ha detto: «fate questo in memoria di me». Non per ricordarci di Cristo, ma per scatenare quelle forze redentrici e vivificanti che Cristo ha portato nella terra e che ha consegnato per l’elevazione e l’ascesa dell’uomo. Allora, se teniamo presente questo, il sacramento diventa una forza viva, direi l’incentramento di tutte le forze cristiane in un determinato punto che diventa la ghianda di queste forze che poi scendono in noi e ci trasformano.

In ebraico l’uomo, il maschio, è chiamato zeker, dalla stessa radice di ricordare, zakar. L’uomo è l’energia attiva nell’esistenza e nell’umanità, mentre la donna è sentita anche come un’energia, ma con manifestazioni differenti. La donna è quella che riceve e porta a germinazione la potenza, l’energia che le viene data dall’uomo. Quindi l’uomo è concepito come il principio seminale, la donna è concepita come la terra che svolge un’attività di protezione, prima di accoglienza del germe, poi di protezione, di difesa, di nutrimento e di germinazione. La donna è madre, ha un’altra potenza, mentre l’uomo è concepito come colui che insemina, la terra e la donna. Quindi è zeker. Infatti gli ebrei quando dicono “partorire un maschio” usano la radice zeker. È la donna che si è ricordata e ricordandosi ha partorito colui che porta le energie fecondanti nell’universo e nel piano umano.

Il profeta Isaia esclama commosso: «Dal ventre di mia madre ti sei ricordato di me»[4]. Cosa significa? Dal ventre di mia madre mi hai conferito la mia potenza caratteristica di profeta. Quindi, vedete, nella concezione di questi popoli antichi, legati più di noi al reale, non è mai il ricordo astratto, non è mai un ricordare fatti avvenuti o persone del passato o persone presenti, è sempre il mettere in moto, il mettere in azione delle particolari energie. Quindi Dio che si ricorda del profeta Isaia fin da quando era nel seno della madre, non se ne ricorda per dire: ecco, nel seno di questa donna c’è questo bravo ragazzo, questo bravo fanciullo che va formandosi; se ne ricorda per conferirgli la potenza e la missione di profeta in Israele. Questo è il senso di ricordarsi, quando Dio si ricorda, oppure quando l’uomo si ricorda di qualcosa, mette in movimento sempre delle potenze.

Nei Proverbi è detto: «La memoria del giusto è una benedizione»[5]. Cosa significa? Noi ricordiamo le persone della nostra famiglia che ci hanno lasciato esempio di rettitudine, di onestà, di bontà, e le ricordiamo con piacere. Allora diciamo: la memoria del giusto, la memoria di queste persone è una benedizione perché è conforto, è incoraggiamento il pensare a delle persone che sono state giuste, oneste, che hanno creduto, nonostante tutte le difficoltà della vita. Non è questa la memoria del giusto? Questa frase vuol dire che la memoria del giusto, la realtà del giusto sopravvive attraverso un’emanazione di forze benefiche che scendono nell’umanità e la trasformano. Il giusto, raggiungendo la giustizia, raggiungendo la sua comunione con il mistero delle cose, quindi un contatto con le sorgenti della vita, viene ad essere - uso questo termine, mi capirete meglio - un condensatore di energie di vita, di energie civilizzatrici, di energie trasformatrici della natura dell’uomo, energie sempre operose e che scaturiscono da questo centro radiante che è il giusto, che è vissuto e che non è più nella dimensione visibile della terra, è nella dimensione dell’invisibile, ma che continua a emanare il suo profumo, a comunicare la sua luce. Per questo la memoria del giusto è eterna, cioè il giusto, si potrebbe tradurre in un linguaggio più moderno, diventa una forza radiante e le sue radiazioni scendono nel cuore degli uomini come benedizione, cioè intensificazione della vita come risanamento. Giobbe dice: la sua memoria è perita, cioè la memoria dell’empio perisce, cioè l’empio cessa di essere una forza radiante di vita, irradiante benedizione.

Ora memoria ha questa radice[6]. Quindi quando Cristo dice, fate questo in memoria di me, vuol dire: questo gesto voi lo farete per evocare la mia presenza che è permanente fino alla consumazione dei secoli nel cuore dell’umanità. Le parole e il gesto richiamano, polarizzano, accentrano tutte le energie di Cristo in modo che questa memoria - il pane e il vino - sulle quali viene pronunziata la parola detta da Cristo, «questo è il mio corpo e questo è il mio sangue», diventano dei centri radianti vita, radianti quelle energie di trasformazione che Cristo ha immesso nel cuore dell’umanità per l’ascesa e per il compimento del sogno che Dio ha avuto quando ha creato l’uomo e nella continuazione della sua creazione. Ecco, usiamo un paragone, che per noi è molto familiare: ci sono dei corpi radianti, non so, il radium. Se ci fosse un oggetto di radium che emana le sue radiazioni, noi vedremmo questo oggetto ma non percepiremmo immediatamente le sue radiazioni che non sono captabili dai nostri sensi, però il nostro fisico a lungo andare sentirebbe l’effetto dannoso di queste radiazioni che entrano nella nostra carne, nella nostra muscolatura, nel nostro sangue e vi producono determinati effetti, negativi se la radiazione è eccessiva. Così, il pane e il vino, diventano, dopo le parole, un oggetto radiante le forze di Cristo. E questo, come lo comprendiamo? Lo comprendiamo attraverso la parola di Cristo: «fate questo in memoria di me». Cioè il gesto della frazione del pane, e il gesto della distribuzione del vino, con le parole trasformatrici, come una formula applicata alla materia, la formula di Cristo, diventano oggetti: pane e vino radianti, radianti la vita di Cristo.

Vi sembra magia questa? Ma è la magia che usiamo anche sul piano della scienza, come il chimico che applica una determinata formula e poi, attraverso strumenti adatti a questa formula, riesce a determinare delle trasformazioni della materia; la formula è sempre la traduzione in linguaggio di un particolare concetto. Voi mettete nell’acqua due elettrodi, e avete la scomposizione dell’acqua nei suoi elementi costituenti. Mi direte, sono fatti fisici. Sono fatti fisici derivanti da una conoscenza e questa conoscenza, prima di essere attuata, è stata intuita dall’uomo geniale che ha voluto sperimentare questa forma di immissione di energia elettrica nell’acqua per vedere se era possibile una scomposizione. Prima era idea, poi è diventata fatto e questo fatto è sempre la traduzione di un’idea che noi poi abbiamo compendiato e racchiuso nella formulazione di un principio di fisica o chimica. Lo stesso avviene - naturalmente questa è una semplice analogia - con il pane e il vino. Il sacerdote e la comunità, in comunione con Cristo e il gesto di Cristo, evocano, chiamano, nel pane e nel vino, la presenza di Cristo invisibile che diventa visibile, e diventa poi una potenza talmente radiante che quando il pane e il vino sono ricevuti consapevolmente, avviene una trasmutazione nell’uomo che li riceve con consapevolezza. E questa trasformazione determina in noi una conoscenza differente del mondo e una particolare forma di civiltà, che è diversa dalla civiltà che potremmo creare noi uomini senza avere quelle conoscenze-forza che vengono introdotte nel nostro essere dalla partecipazione al pane e al vino dell’Eucaristia.

Voi mi direte, è alta magia, ma tutto nella vita è alta magia. A questo son giunto non per fantasticheria ma per una semplice analisi del linguaggio. La parola “memoria” ci ricorda sempre una realtà che irradia potenza, forza, energia. Allora, se le cose stanno così, noi non possiamo avvicinare il sacramento con dei sentimenti. Dobbiamo avvicinare il sacramento con la piena coscienza e la piena consapevolezza, ma soprattutto con un desiderio che le forze che vengono sprigionate dalla ricezione di questo sacramento attuino in noi quella trasformazione e quella trasmutazione di vita che ci aspettiamo. Per forza radiante intendo una forza che provoca una reazione a catena. Quando noi assumiamo il corpo e il sangue di Cristo, egli mette in movimento in noi delle energie che erano assopite, oppure meno intense come movimento, e mettendo in moto queste energie provoca in noi delle reazioni personali alla sua presenza e alla sua consumazione in noi. E la presenza di Cristo continua sempre, non nella forma emotiva e sentimentale che diciamo noi, ma nel provocare in noi delle particolari reazioni che trasformano tutto il nostro essere in Cristo.

Il mistero religioso cristiano è il mistero più semplice: Cristo è il più grande dissacratore che sia mai apparso della faccia della terra. Noi, poi, costruiamo i grandi tabernacoli, i reliquiari dove mettiamo Cristo e le sue parole, ma Cristo rompe sempre queste cose che noi costruiamo e di fronte a tutta la religiosità umana Cristo è colui che ha rivelato che la vita è sacra in se stessa e che l’uomo giunge a Dio attraverso gesti semplici ed elementari come quello di mangiare il pane e di bere il vino. Come quello di cantare e di partecipare con coscienza nuova al mistero dell’esistenza. Poi, gli incensi, le candele, i fiori, e anche le chiese, sono tutte invenzioni di uomini, ma il mistero di Cristo è molto più semplice e più elementare che non queste costruzioni fatte da noi uomini. Anche la teologia è una costruzione grandiosa, ma quando vogliamo raggiungere il mistero cristiano dobbiamo bruciare tutte le teologie e ritrovare Cristo nella sua semplicità di radice vivificante dell’umanità.

Siete soddisfatti? Ma stasera ci rientreremo un po’ su queste cose. Poi, naturalmente, io vi comunico i miei pensieri. Ci pensate, se li trovate giusti bene, se non li trovate giusti bene lo stesso, perché ognuno di noi è un esploratore solitario nella vita, specialmente nella vita profonda, nel mistero. Ognuno di noi scende, ha un suo percorso, una sua strada, poi ci incontriamo e ci diciamo, guarda, io ho scoperto questo, tu hai scoperto questo, allora immettendo insieme le piccole scoperte che facciamo, riusciamo a un approfondimento della verità. Non c’è, come si dice comunemente, il maestro e il discepolo, noi siamo tutti discepoli e l’insegnamento ci vien dato dalla presenza nella vita, di Cristo. E più il nostro orecchio si apre ad ascoltare l’insegnamento di Cristo, più noi impariamo. Poi ce lo comunichiamo, quel poco che abbiamo imparato, e ci arricchiamo a vicenda, ma non c’è un’ecclesia docente e un’ecclesia discente. Siamo tutti discenti. Che poi ci sia nella Chiesa chi ha la responsabilità di annunciare ciò che è stato scoperto da tutta la vita della Chiesa, quindi da tutti i fedeli, questo è un altro fatto, ma anche chi annuncia questa verità deve essere prima in ascolto di tutti i singoli fedeli, perché può darsi che il mistero di Cristo sia conosciuto meglio da uno di voi che da me che ho letto e pensato molto. Siamo tutti discepoli.

Noi veniamo alla Messa per conoscere, per imparare, per ricevere delle direttive, delle informazioni che trasformeranno il nostro essere, riceviamo un fuoco. Quindi, uscendo di Chiesa, portiamo in noi questo fuoco che lentamente ci brucia e ci rende ardenti in mezzo agli uomini e ci rende luminosi di una luce che è comunicata a tutti gli uomini che sono attenti e che ne hanno nostalgia.


Meditazione pomeridiana

 

 

 

 

 

Stamani abbiamo pensato alla realtà dell’Eucaristia, del pane e del vino; vi dicevo che questi due elementi ci comunicano delle forze e delle conoscenze e che il nostro atteggiamento di fronte al pane e al vino, che spezziamo e distribuiamo durante la Messa, non deve essere un atteggiamento emotivo, devozionale, ma un atteggiamento di gente che sta attenta a un insegnamento profondo che le viene consegnato e che poi deve compiere e attuare nel corso della vita. E qual è l’insegnamento che ci viene consegnato attraverso il pane e il vino? Io credo sia questo. Il pane... che cos’è il pane? È una realtà, un elemento che ha un solo scopo, una sola finalità nella vita: quella di essere mangiato, di alimentare la nostra vita fisica, la nostra vita mentale, la nostra vita di uomini. Se non avessimo il cibo potremmo sopravvivere solo per poco tempo. Noi consumiamo il cibo. Quando Dio, attraverso il Cristo, ha rivelato la sua essenza, il mistero della sua natura, lo ha manifestato attraverso il gesto del Cristo: egli ha preso il pane e ha detto «prendete e mangiate, questo è il mio corpo»; ha preso il vino e ha detto «prendete e bevete, questo è il mio sangue». Vedete, voi siete giovani e attraversate momenti di incertezza, di smarrimento, di dubbio; avvicinate le grandi o le piccole filosofie degli uomini, incontrate degli uomini che dicono: io credo in Dio, e altri che dicono: io non credo in Dio; trovate dei movimenti che vi indirizzano verso una fede in Dio e movimenti che vi dicono: la fede in Dio è un’alienazione. Per sapere quali sono l’anima, lo spirito, l’idea ispiratrice di questi movimenti, quando voi volete conoscere questi uomini dovete domandar loro: per te chi è Dio? E allora ritorniamo al gesto semplicissimo di Cristo: egli ci dice che Dio è il pane, egli ci dice che Dio è il vino. Pensate che grande definizione è questa, e non è una definizione intellettuale, scientifica, razionale, di Dio. Quando incontriamo Cristo e gli domandiamo: chi è colui in cui credi? egli prende il pane e ci dice: questo è Dio, prendi e mangia. Egli prende il vino, lo mesce nel calice e dice: bevi, questo è il sangue di Dio. Allora chi è Dio? È il giudice insindacabile delle nostre azioni, è colui che ci perseguita per tutta la vita per esaminare e pesare le nostre azioni? No, Dio è il pane, e Dio è il vino. Questo dobbiamo credere fortemente. Non è il giudice delle nostre opere, il giudice dei nostri pensieri, colui che misura quello che noi sentiamo, pensiamo e facciamo. Dio è l’alimento di tutta la nostra vita, la speranza della nostra speranza, il canto di tutti i nostri canti, la poesia di tutte le nostre poesie, la forza che ci spinge ad andare sempre più avanti, oltre tutte le nostre piccole realizzazioni.

 

Voi siete giovani e amate o amerete, ma la presenza di Dio nel vostro cuore vi spinge ad un amore sempre più grande e sempre più sconfinato. Voi siete giovani e partecipate alla vita con un senso di immortalità, ma Dio è la vita della vostra vita, è colui che vi spinge a una vita sempre più piena e sempre più perfetta, è colui che vi dice: non fermatevi mai a nessuna piccola costruzione che potete fare come uomini, ma andate oltre. Uno dei termini del nostro mondo moderno che qualifica una vita che si chiude in se stessa è il termine “borghese”. Noi diciamo, siamo dei piccoli borghesi, non vogliamo accettare la piccola borghesia, non vogliamo accettare chiusure della vita. E sapete chi ci spinge sempre oltre? È Dio, È Dio, che si inserisce, introduce in tutte le nostre piccole realizzazioni e ci dice di andare avanti, di andare oltre, di rompere le nostre piccole case perché la nostra terra non è la terra presente, non sono le piccole costruzioni che noi possiamo fare come uomini, ma ci spinge sempre al largo. Ecco, questo è Dio. È il pane che sostenta il nostro cammino di uomini, è la speranza che s’introduce nelle nostre disperazioni, è l’amore che entra nei nostri piccoli amori e ci rende sempre più vasti e più sconfinati.

 

Cristo è il grande cavaliere che passa ogni giorno vicino a noi, all’alba, e ci spinge ad andare verso il cammino del sole, verso un orizzonte sempre più sconfinato e sempre più pieno. L’uomo che crede in Dio non è mai soddisfatto di se stesso e cerca sempre nuove terre e nuovi cieli, implacabilmente e instancabilmente. Questo è il Cristo che ci ha rivelato Dio. Voi siete giovani, non disperate mai, perché nella vostra disperazione c’è un germe di ripresa di Vita ed è Dio. Non diffidate mai della vita, perché la vita che costruiamo noi uomini, sì, è una piccola vita, ma in essa c’è Dio che infonde vita a tutte le manchevolezze, infonde canto a tutte le deficienze delle nostre capacità di cantare. Quando la nostra poesia e i nostri sogni di bellezza si spengono, ecco che Dio anima le nostre capacità di cantare, di edificare opere belle. Questo è Dio, è il pane, è l’alimento.

 

E ora vorrei precisare un poco questa natura dell’alimento di Dio. Avete mai pensato a cosa avviene quando noi consumiamo il pane. Oggi abbiamo mangiato insieme vari alimenti. Che cosa fa il nostro organismo di fronte a questi alimenti? Voi studiate, sapete che noi incorporiamo le macro-cellule dei cibi che consumiamo; queste macro-cellule sono come delle grandi cattedrali: quando scendono nel nostro stomaco vengono scomposte nei loro elementi costitutivi e le macro-cellule diventano aminoacidi che vengono assimilati dal nostro essere secondo le nostre capacità personali e individuali. Quando noi prendiamo il pane e il vino alla mensa eucaristica, assumiamo il Cristo. Egli entra nel nostro organismo e noi lo assimiliamo secondo la nostra natura e la nostra essenza. Anche sul pane che abbiamo mangiato oggi insieme, la nostra digestione si comporta in maniera differente secondo la nostra individualità fisica e biologica. Io assimilo il pane in una maniera differente da tutti voi, come voi assimilate il pane in maniera differente da me e da tutti gli altri. Il nostro organismo scompone il cibo che prende, poi lo assimila secondo la sua natura e secondo la sua essenza. E così anche il Cristo che noi assimiliamo nell’Eucaristia, viene consumato e scomposto secondo le nostre qualità essenziali, individuali e personali, per essere poi vissuto in una maniera differente e personale da ciascuno di noi.

 

Questa, vedete, è una delle grandi realtà che stiamo scoprendo nel mondo moderno: ogni uomo è diverso dall’altro, anche nel suo cammino religioso, e da ogni uomo si richiede un profondo rispetto di quello che è l’altro uomo, perché ognuno di noi ha una sua essenza, un suo nome, che è irripetibile ed è una parte integrante di tutto l’universo, di tutto il cosmo. Se io volessi che voi pensaste e viveste religiosamente come vivo io, farei una violenza alla vostra natura e turberei un’armonia dell’universo, perché ciascuno di voi assimila Dio secondo la propria essenza, secondo le proprie capacità, secondo la propria natura ultima. Così il pane che prendete alla mensa viene consumato e assimilato da ciascuno di voi secondo la vostra essenza. Questo, vedete, è molto importante, perché per millenni l’umanità ha sempre assimilato la parola religiosa e anche la parola di vita, gli orientamenti di vita, secondo determinati schemi, secondo determinate ideologie. Cristo invece, dicendoci che Dio è pane, ci rivela una dimensione differente. Come di fronte al pane il nostro organismo si comporta in una maniera differente e personale, così anche nella nostra vita religiosa ciascuno di noi deve essere se stesso e vivere le forze di Dio secondo la propria personalità, secondo la propria sensibilità e secondo la propria essenza.

 

Stamani vi dicevo che nessuno può essere maestro; io ora vi parlo e a me posso sempre parlare perché non sono maestro di nessuno, sono un pover’uomo che vive il suo mistero di uomo e la sua partecipazione all’esistenza con una certa attenzione, una mia attenzione personale, ma io da voi non posso domandare un’esecuzione della mia parola. Io a voi chiedo che mi forniate la vostra parola. E io devo essere in silenzio e in attenzione a quello che è il mistero di ciascuno di voi, perché ogni uomo che viene all’esistenza è una rivelazione di Dio, ed ogni uomo che si nutre del pane e del vino che gli vengono consegnati all’altare, alla Messa, vive Dio secondo la sua essenza,la sua sensibilità, le sue possibilità. Vedete, questa è una delle verità più sconvolgenti che sono sempre state attive dopo Cristo. La nostra ansia di libertà personale nasce da Cristo ed egli l’alimenta. Il nostro desiderio di essere autentici e coerenti con le spinte più vere e più essenziali del nostro essere viene da Cristo. Egli è colui che alimenta il nostro sogno di libertà, la nostra ansia di essere noi stessi, il nostro desiderio di non essere violentati da nessuno, da nessuna forza terrena, da nessun partito, da nessuna Chiesa, da nessun maestro. Nella vita noi siamo soli, e nella vita noi siamo come dei calici che si aprono per essere riempiti del vino e della vita di Dio. Ma la mia capacità di ricevere Dio è unica ed è irripetibile come la capacità di ciascuno di voi di ricevere Dio e di vivere Dio è unica e irripetibile. Allora vedete, vedete, la Chiesa è l’incontro di uomini liberi che accolgono la parola di Dio e la vivono personalmente, in piena libertà.

 

Prendete il pane e prendete il vino nell’incontro di Cristo che torna in mezzo a noi e attraverso le parole consacratorie ci dice, prendi e mangia, questo è il mio corpo, prendi e bevi, questo è il mio sangue, ogni volta che noi avviciniamo questo sacramento dobbiamo uscire dalla chiesa creature totalmente rinnovate, desiderose di una sola cosa, di essere mangiati dagli altri perché tutti abbiano gioia, tutti abbiano accrescimento di vita e accrescimento di speranza. Ogni volta che noi non riusciamo a diventare pane siamo pietra e allora la vita è dura, la vita è triste, la vita è sconsolata, la vita è costituita da quel senso di solitudine che ci rende disperati e cattivi. Quando invece, noi consapevolmente assimiliamo il pane e diventiamo pane come Cristo, come Dio, allora nella vita nascono i grandi doni dello Spirito che sono la speranza, la fiducia, la gioia. Non vi sembra che il grande male dell’esistenza nasca proprio da questo, che non ci possiamo fidare degli altri? Ognuno vive la sua vita nella sua solitudine. Ognuno si chiude nella sua casa, nel suo appartamento, ognuno si trincera dietro ai piccoli beni che può avere e dimentica gli altri, e allora soffriamo, e allora avvengono le grandi divisioni dell’umanità, e allora si compiono quelle grandi tragedie che sono le guerre. Se invece noi riusciamo ad essere pane per gli altri, ad interessarci più degli altri che di noi stessi, a dilatare le nostre case, le nostre tende, a sentire che la vita è sconfinata, ed è un’avventura che domanda a noi una continua giovinezza, un incessante rinnovamento di sangue, uno spirito di avventura sempre più ardente e più forte, allora fra noi e gli altri non si costruiscono muri di separazione, di divisione, ma si stabilisce un ponte di creatività che è costituito dalla nostra capacità di donarci agli altri, di interessarci più agli altri che a noi stessi, di lasciare consumare la nostra carne, di lasciare bere il nostro sangue dagli altri perché gli altri abbiano vita e gioia.

 

Credetemi voi, io sono anziano, voi siete giovani, ma il senso della vita noi lo scopriamo nella misura in cui riusciamo a donare di noi stessi agli altri.

 

Guardate l’Europa è piena di cose grandi, ma le cose più grandi non sono quelle che abbiamo costruito nel nostro desiderio di avere, come facciamo ora nella società dei consumi, ma sono quelle che sono state costruite dai grandi uomini per la gioia, per l’elevazione di tutti gli altri. I grandi capolavori di arte non sono altro che gesti di amore, le grandi opere di civiltà che abbiamo costruito qui in Europa, sono tutte opere nate da un amore profondo e intenso per gli altri. I nostri grandi musicisti, i nostri grandi poeti, i nostri grandi artisti, i nostri grandi santi, hanno edificato un tipo di uomo che non è caratterizzato da una chiusura in se stesso, da un desiderio di accumulazione di beni per se stesso, ma è caratterizzato da grandi gesti di amore. Pensate a Bach, a Giotto, a Piero della Francesca, a Rouolt, a tutti questi grandi che ci hanno lasciato il dono del loro amore per gli uomini e non hanno costruito le loro grandi cose e non hanno consegnato il loro grande sogno di bellezza per arricchirsi, ma lo hanno fatto per arricchire gli altri, per diventare attraverso la loro arte, la loro visione della vita, un pane che viene consumato da noi. E noi gioiamo, noi siamo più civili, siamo meno bestiali, siamo meno crudeli... ... ... per l’opera di amore compiuta da questi grandi uomini che sono vissuti qui in Europa e che, animati dalle correnti che partivano dal Cristo, si sono trasformati e son divenuti per noi un pane di vita.

 

Credetemi, voi siete giovani e siete più capaci di amore e di libertà di quello che non sia stato capace io. Voi modificherete la vita e trasformerete la vita in bellezza nella misura in cui saprete amare altruisticamente, nella misura in cui riuscirete a divenire per tutti pane e vino, pane che nutre e vino che dà gioia, vigore, ebbrezza al nostro sangue e ci permette di cantare i più bei canti della vita. Ecco, sentite questo; e queste cose, vedete, con un gesto semplicissimo ed elementare, ci vengono dette da Cristo nella Messa; prendete e mangiate, questa è la mia carne; prendete e bevete, questo è il mio sangue.

 

Ecco, io non ho altro da dirvi sul mistero dell’eucarestia, ma, mangiando Dio nella Chiesa, nella Messa, noi dobbiamo diventare come Dio, un pane; e bevendo il sangue di Cristo, noi dobbiamo diventare come Cristo, un sangue che diventa vino per la gioia, il canto, i sogni più grandiosi di bellezza che possono sorgere nel cuore dell’uomo. Il cristianesimo è canto, il cristianesimo è liberazione, il cristianesimo è gioia, il cristianesimo è la partecipazione più entusiastica, direi orgiastica al mistero della vita. Un cristiano che non porta gioia, che non porta pace, che non porta fiducia, che non porta speranza, attraverso la donazione di se stesso agli altri, non è cristiano. È un cristiano che chiude Iddio nello scrigno del suo cuore, ma quel Dio che ha racchiuso nel suo cuore e sul quale si consola e si commuove non è un Dio, è semplicemente un idolo costruito dal suo io. Il nostro Dio è al di là di tutte le nostre costruzioni, il nostro Dio è il canto dei nostri canti, la speranza della nostra speranza, la libertà della nostra libertà, il sogno più grande che noi uomini possiamo sognare. E quando raggiungiamo l’ampiezza del sogno di Dio, Dio è sempre oltre il nostro sogno. Dio è vita e pienezza di vita, e la nostra vita è sempre piccola e sempre limitata perché siamo creature chiuse in un piccolo cerchio di tempo e di spazio. E quando raggiungiamo i confini del nostro tempo e del nostro spazio Dio è sempre oltre.

 

Sentitelo fortemente, questo. Un giorno voi amerete, o già amate, ma Dio è oltre tutti i vostri piccoli amori ed è la pienezza di quel vostro amore ed è quel sogno che nel vostro piccolo amore voi credete di attuare ma che attuerete soltanto quando il vostro amore sarà insoddisfatto delle sue realizzazioni e tenderà sempre a misure e a spazi sempre più vasti e sempre più sconfinati.

 

Ecco, questo volevo dirvi, siamo chiamati alla gioia, la vita è una gioia e la gioia viene conquistata attraverso il superamento di noi stessi. Siate implacabili in questo, non vi chiudete mai in nessuna forma, in nessuna costruzione, in nessuna ideologia, perché il nostro Dio è il Dio dei viventi e la vita è sempre oltre tutte le forme possibili. Ecco, non vi dico altro, provate un po’ con i canti. Stasera, poi, nella celebrazione della Messa ricorderemo queste grandi cose: Dio è pane e noi dobbiamo essere pane; Dio è vino, più buono del vino del Chianti, è vino e noi dobbiamo nella vita essere vino, principio di gioia e di canto.

 



[2]Sal 98,3

[3]Os 9,15

[4]Is 49,1

[5]Pr 10,7

[6] «Il vocabolo “memoria” traduce un termine ebraico, zikkaron, la cui radice è zeker, ricordare». «Fate questo in memoria di me», in Servitium I, 20-21 (1971), 410. L’articolo è riportato anche in Pellegrino dell’Assoluto, op. cit., pp. 154-158.